Dalla Finanziaria per il 2006 un rischio di portata storica per la cultura.

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Dario Nardella*

E’ curioso che si debba essere lieti della riduzione della riduzione del Fondo Unico dello Spettacolo decisa in questi giorni in cui la legge Finanziaria per il 2006 è in dirittura d’arrivo alla Camera. Fino ad un mese fa il mondo della cultura, e dello spettacolo in particolare, rischiava di vedersi tagliato il FUS di quasi la metà, da 464 a 300 milioni di euro, scendendo così ai livelli di minimo storico, inferiori perfino allo stanziamento originario stabilito in occasione della legge istitutiva del fondo nel 1985. Le proteste di tutto il Paese sono però servite ad una semplice riduzione del taglio e, anche questa volta, domina un senso di avvilimento.
In effetti a nessuno è concesso illudersi che il governo attualmente in carica possa decidere di investire e finanziare i mondo del sapere, della cultura, della ricerca: da questa legge finanziaria, come in quelle che l’hanno preceduta negli scorsi anni di governo del centrodestra, non emerge una casualità, ma una precisa strateg ia di governo condivisa certamente dal Presidente del Consiglio e, nella migliore delle ipotesi, subita dai due ministri alla cultura Urbani e Bottiglione. Si tratta di un vero e proprio programma di disinvestimento pubblico per la cultura.
In questi anni si sono susseguiti tagli in ogni settore della cultura, come quelli al bilancio del Ministero dei Beni e delle Attività culturali, avvenuti anche grazie alla palese debolezza del ministro competente che, nonostante minacce e proteste, non è stato in grado di rappresentare gli interessi collettivi e degli operatori e di dare forza e dignità al ruolo pubblico per la cultura all’interno del suo Esecutivo.
Non è retorico dunque dire che questa volta l’Italia versa davvero in una situazione di collasso in cui musei, cinema, teatri, non sono in grado di fare fronte all’attività ordinaria. D’altro canto il sistema delle soprintendenze è lascito ad uno stato di abbandono: carenza di personale, concorsi che non si vedono da decenni, soprintendenti con stipendi da funzionari e senza motivazioni, assenza di ricambio, mancanza di attrezzature, servizi, strumenti di ricerca e innovazione. Come è immaginabile che l’immenso patrimonio culturale possa essere ben tutelato e valorizzato in queste condizioni? Meglio non va per lo spettacolo dal vivo, per il quale da anni si è aspettata la tanto annunciata legge quadro che oggi è ormai insabbiata in Parlamento e non ha più alcuna speranza di essere approvata. D’altro canto il progetto di legge non convince perché non propone un quadro chiaro di governo dei diversi settori e mantiene il rischio di una forte conflittualità tra Stato centrale e Regioni. Il turismo, che in Italia, verte sul motore delle bellezze artistiche delle nostre città e dei nostri territori, vive una condizione di profonda crisi, come dimostrato dal calo del 7,1 % di turisti nel primo semestre del 2005, quando tutti gli altri paesi europei, Spagna e Francia innanzitutto, sono in leggero recupero. E’ proprio di questi giorni la notizia che anche la Cina ha superato l’Italia per numero di visitatori all’anno.
Insomma, quando si tagliano le risorse culturali il danno è molto più vasto e incisivo di quanto non si sia indotti a pensare. E non si parla solo di effetti negativi sul turismo, sul mondo del lavoro, sull’innovazione. Le attività culturali producono infatti un risultato infungibile, quasi intangibile, eppure fondamentale, che è quello di formare le nuove generazioni, quello di caratterizzare un modello di sviluppo di un territorio, quello di abbattere le tensioni sociali, quello, insomma, di accompagnare la crescita della coscienza critica collettiva di un territorio e di un intero paese. Non è possibile quantificare in termini puramente economicisti o materiali tali risultati ma è possibile inquadrarli come valori determinati dalla presenza di un’offerta culturale e creativa in un determinato contesto urbano o territoriale. La cancellazione delle fonti di produzione di questa offerta determina un impoverimento profondo dagli effetti duraturi e assai difficile da recuperare. Ciò che deve preoccuparci, infatti, sono le conseguenze che si manifesteranno negli anni se questo stato di cose non subirà un cambio di marcia repentino. Chiunque vincerà le elezioni del prossimo anno avrà davanti una scelta difficile ed una responsabile che non esitiamo a definire storica: si tratta di decidere del futuro di un’intera nazione.