Ascanio Celestini e la comunicazione della memoria: “Dobbiamo pensare al passato non come un recupero nostalgico ma come un insegnamento per il presente”Edoardo Semmola
memoria storica stia mostrando segni di affievolimento. Se così fosse anche Ascanio Celestini – come contastorie di una memoria italiana della guerra – rischierebbe di ritrovarsi contromano.
Ascanio Celestini, lei pensa di far parte, per dirla alla Giorgio Gaber, di una “razza in estinzione”?
Penso sia il contrario, perché in questi anni si racconta di più di quanto non si sia fatto nei decenni passati, basta notare che la maggior parte delle storie sui deportati sono più raccontate oggi che trent’anni fa. Ma c’è differenza fra informazione e comunicazione, racconto. Con l’informazione non c’è dialogo, non si parla con un telegiornale o con un articolo stampato. Invece nella comunicazione il dialogo c’è, si può rispondere, si può ascoltare una storia e poi raccontarne una a nostra volta. E non sono i “nonni” che hanno cominciato a raccontare, sono i “nipoti” che hanno cominciato a chiedere per recuperare il tempo perduto. Penso che proprio la mia generazione stia recuperando i rapporti con il passato più che quelle precedenti.
Cosa ha da insegnare al presente il ricordo narrato della Liberazione di Roma? Cosa è andato perduto?
Dobbiamo pensare al passato non come un recupero nostalgico ma come un insegnamento per il presente. Quando una persona anziana mi racconta della liberazione di Roma, mentre mi parla, nella mia testa si producono immagini, si costruiscono avvenimenti, penso a delle storie. E poi magari sono io che racconto a lui quelle immagini e quelle storie. Viceversa se la Liberazione me la spiega un professore di Storia, non c’è ritorno, non c’è dialogo: prendo appunti, imparo, e basta. La bellezza delle storie personali è che queste ti insegnano e ti parlano direttamente.
Quando si pensa ad un bambino che guarda la guerra partigiana, il paragone corre subito a Italo Calvino e al suo Pin de “Il sentiero dei nidi di ragno”…
Il mio pensiero era invece rivolto alle guerre presenti. A Gino Strada soprattutto, e al suo libro “Pappagalli verdi” sulle mine antiuomo che sembrano giocattoli a forma di pappagallo. Ho pensato: ma perché i bambini le toccano? Non lo sanno che sono mine? Perché giocano quando hanno la guerra nelle strade? Per noi è difficile capirlo, ma la guerra non è come nei film, nella vita vera le persone, e quindi anche i bambini, cercano di condurre una vita normale nonostante della guerra. E quindi i bambini giocano e saltano in aria sui pappagalli verdi. È questo aspetto della guerra che mi interessava raccontare, il tentativo di condurre una vita normale nell’orrore della guerra.
Dov’è il confine tra l’orrore della guerra e la quotidianità?
Non c’è un confine netto in realtà. È come uno che esce di casa e viene investito da una macchina. Un attimo prima non stava vivendo una situazione tragica, ma normale, quotidiana. Noi non vediamo e non viviamo quel confine. C’è a posteriori: solo dopo noi diciamo “quello è il giorno della Liberazione di Roma”. Per chi lo vive è semplicemente il 4 giugno ’44, un giorno come un altro.
La grande assente di queste “Storie di uno scemo di guerra” è la retorica. È grazie all’assenza di retorica che questo libro può arrivare a tutti, di destra come di sinistra, giovano o vecchi?
Spero di sì, spero sia davvero così. Quando una persona racconta una storia, la sua storia, difficilmente sarà retorico. La memoria, quando non viene istituzionalizzata, non diventa “un caso”, ma rimane a livello personale ed è “comunicata” nel senso che dicevamo, difficilmente cade nella retorica. La memoria ha un senso se davvero ci appartiene, se è “nostra”. Ma quando diventa una festa nazionale, una corona di fiori, una celebrazione, ecco che allora si trasforma in barzelletta, in una cosa noiosa e ridicola. La retorica questo è: un discorso celebrativo e a senso unico. (e.s.)