Intervista esclusiva al designer fiorentino Adriano Piazzesi
di Umberto Rovelli
A ottant’anni Adriano Piazzesi – poeta, scultore, esperto musicale, fotografo, pittore e designer – pare inesauribilmente riproporsi come grande artefice del fare forma rinnovando energie e sorgività espressive inaspettate. Schivo e romanticamente alieno a logiche di mercato, il designer fiorentino ha forse raccolto meno di quanto l’impressionante creatività dimostrata in oltre mezzo secolo di carriera avrebbe meritato. Eppure – in piena era della globalizzazione –, il suo stile obliquamente conteso tra poesia e lucidissima razionalità ha convinto tutti accreditando il successo a Loft – inconsueto e raffinato divano in mostra al Salone del Mobile di Milano nel 2004. E quest’anno, ben quattro progetti – sempre per Arketipo –, lo hanno visto nuovamente protagonista alla kermesse milanese: due divani – la novità assoluta Jet e Space, re-styling del recente Wisky – nonché la poltrona Mikra.
Nei tuoi lavori non si può non leggere un’intima necessità, un’urgenza che è alla base di ogni tuo progetto?
Penso al design come ad una forma di dialogo. Sono tormentato dallo spazio, da tutto quello che è intorno a noi: il caldo, il freddo, la luce, il vento. Per me ogni fenomeno che accade nello spazio è un’informazione, o meglio, una domanda che chiede una risposta. E credo realmente che di fronte ad un oggetto si possa percepire che esso ci impegna in una certa direzione. Un oggetto cioè, comunica in modo molto profondo e non solo con il nostro corpo ma anche con la nostra mente. Un oggetto può arrivare ad acculturare chi lo utilizza e ne fruisce le qualità…
Quindi ritieni che un cattivo progetto possa essere anche diseducativo.
Ho avuto esperienze di ambienti altamente diseducativi, ma spesso anche gli oggetti possono contribuire a non educare a sentire e dialogare con noi stessi. In fondo è – o, meglio, dovrebbe essere –, come quando vediamo e amiamo un quadro. Di fronte ad esso ci poniamo, e siamo, in una relazione biunivoca, in un rapporto pieno. Anche il quadro pone a noi delle domande, e se non sappiamo rispondere ci sentiamo impegnati a trovare una risposta. Questo ci avvicina e ci fa avvicinare al quadro: al punto da sentire il bisogno di toccarlo. Per questo anche amo tantissimo Alberto Burri. Nelle sue opere c’è la materia più vile, più povera, sublimata in raffinata pittura. Nei sacchi di Burri percepisco la stessa abilità a trasformare il mondo e renderlo pittura che c’è nei fondi oro dei maestri del trecento. E’ Il sacco che diventa colore. Certo, se ne indovina, la provenienza, si avverte in qualche modo che il sacco è il sacco, ma ormai si è trasformato in pura pittura di altissima qualità.
Questo è ciò che mi ha toccato. Ed forse ciò che cerco di fare nei miei oggetti sforzandomi ogni volta di ottenere qualcosa in più della nuda somma dei materiali utilizzati.