Terra di passioni

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Sergio Rubini parla del suo ultimo film, uscito nelle sale, con Fabrizio BentivoglioEdoardo Semmola

Terra di passioniI greci la chiamavano Gea, o Gaia. I vikingi Jord, madre di Thor, dio del tuono. Noi la chiamiamo semplicemente Terra. Se semplicemente si può dire. Il 34.6% della sua massa è fatta di ferro mentre per il 29.5% è ossigeno. Il calore delle profondità arriva fino a noi, alla superficie. Anche se solo per un ventimillesimo di quanto ci arriva invece dal sole.
La terra è anche un marchio, un documento d’identità. La terra ci dice chi sei, da dove vieni, a quale mondo appartieni e a quale cultura, tradizione. “La terra” è un thriller, teso e duro. Un bel film italiano diretto da Sergio Rubini e interpretato da Fabrizio Bentivoglio, Paolo Briguglia, Emilio Solfrizzi e altri ottimi attori italiani della vecchia e della nuova generazione. È un film sull’identità e la memoria, là dove la terra gioca il suo ruolo da padrona con tutto il suo calore. È un film sul sud d’Italia, la sua gente e la sua anima. È un film che vale la pena andare a vedere in questi giorni nelle s ale.

Sergio Rubini, ancora una volta attento interprete dell’anima e della cultura della sua terra, la Puglia, sembra osservarla con distaccata consapevolezza, come fa anche il suo protagonista Bentivoglio, un figlio del sud allontanato che ritorna, e che ritornando cambia pelle… Qual è per lei il senso del suo cambiamento?
È una prospettiva interessante anche se il film non vuole raccontare il cambiamento di un uomo che andando dal sud al nord diventa un’altra persona, per poi tornare ad essere se stesso nel momento in cui ritorna a casa. Semmai vuol raccontare come non sia possibile affrancarsi dal proprio marchio d’appartenenza. Si può cambiare, certo, ma sempre con la consapevolezza che la vita ad un certo punto può chiederti di tornare ad essere ciò che si è stati. Perché la memoria gioca un ruolo fondamentale nella nostra esistenza.

Il protagonista ritrova una sua dimensione affettiva familiare ma lascia dietro di sé la sua serenità di uomo distaccato. Va a stare meglio o peggio?
Per riuscire a riprendersi questo passato, a conquistarselo in maniera consapevole, è importante anche perdere qualcosa. E quest’uomo, tornando al sud, oltre a riprendersi una certa dimensione affettiva, finisce anche per entrare in un cono d’ombra che fa parte della sua storia e della sua famiglia. Per cui l’ambiguità con cui il personaggio di Fabrizio Bentivoglio risolve questa brutta faccenda è l’eredità della sua appartenenza ed è anche l’uso e il costume che in quella terra ancora vige. Nel sud, in virtù del modo d’essere e di vivere delle persone, si creano delle stratificazioni di memoria che fondano una realtà portatrice di tante cose sane ma anche di tante cose che sane non sono. E poi al sud da sempre – e questa forse è l’ambiguità della chiusa di questo film – è indubbio che la distanza fra lo Stato e il cittadino è più ampia che in altre parti del mondo.

La masseria protagonista della vicenda è una delle tante che in questi anni hanno subito l’assalto di compratori stranieri, che hanno contribuito a cambiare il volto della Puglia. Proprio partendo dalla perdita di questi fondamentali retaggi medievali che sono le masserie…
Non riesco a dare un parere sano perché il senso della proprietà non mi appartiene. Credo che non siano le cose a rappresentare la memoria delle persone ma siano le persone stesse e le loro affettività, persone come “testimonianze di memorie”.
La famiglia protagonista del film rappresenta secondo me il simbolo di una certa aristocrazia della terra, ormai finita, morta, che quindi ha come suoi rappresentanti degli uomini sgangherati come quelli che il film racconta. Il compito del personaggio di Bentivoglio è quello di rifondarla questa famiglia, ma appunto non più attraverso la proprietà delle cose ma anzi attraverso il semplice fluire dell’affettività. Senza le “cose” che in fondo sono d’ostacolo ai sentimenti. Io credo che le cose “dividano” le persone. Sì, è vero, queste terre al sud le stanno in qualche modo svendendo e mi dispiace molto per quelli che ci vivono. Non vorrei essere nei loro panni per l’amarezza che devono provare dal momento in cui queste terre, le case, le masserie, le danno via. In fondo il film penso che sia intriso anche di una certa nostalgia.

Perché ha fatto un thriller, con tanto di delitto, caccia all’assassino e malavita? E perché un compositore come Pino Dosaggio, famoso per le musiche dei film di Brian De Palma?
Ho pensato ad un thriller perché mi piaceva l’idea che quest’uomo, tornando, oltre alla malinconia, vivesse anche la paura, il sospetto, per qualcosa di terribile. Il “ritorno” in sé non può essere “soleggiato” ma è un ripiegarsi nel buio, e al buio si ha paura di tutto ciò che abbiamo intorno. Per questo ho pensato che il thriller – e un compositore come Pino Donaggio per la colonna sonora – fosse la chiave più idonea di racconto. Non volevo che si rappresentasse musicalmente questo ritorno al sud con la musica etnica e il folclore, come una tarantella. Personalmente sono cose che non mi interessano, che non servono a ciò che volevo raccontare.

Qual è stata la fonte di ispirazione della sceneggiatura?
Il primo pensiero-modello per questa storia è stato Dostoevskij. Ho pensato a dei personaggi afflitti da una battaglia forte e pulsante. Ho pensato ai fratelli Karamazov. Poi di mezzo c’è dentro Sciascia o anche Michael Corleone ne “Il padrino” che si ritrova a fare più o meno lo stesso percorso di riavvicinamento alla famiglia.

Le elezioni si avvicinano… anche per voi artisti e uomini di spettacolo il 9 aprile si avvia a diventare una data importante, no?
Si sa che tutta la gente dello spettacolo è di sinistra. Però si sa che l’impero di Berlusconi è fondato sullo spettacolo. Questa è la considerazione che ci deve accompagnare fino alla data del 9 aprile.