Prodi rifugge dalle riforme

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Come mai ancora ci sono ritardi nel convocare i tavoli sulle riforme a Palazzo Chigi annunciati dall’Unione nel recente vertice di Caserta? Prodi deve fare le riforme, e non sono certo io a frenare aveva puntualizzato il leader della Margherita: il messaggio che ha lanciato Rutelli con una lettera al quotidiano La Repubblica e’ esplicito: espone con chiarezza lo stato dei fatti. La maggioranza si regge su un accordo tra componenti democratico-riformiste, cioe Ds e Dl, e componenti massimaliste, le differenze le conosciamo ed e’ inutile ripeterle ogni volta, si tratta di andare avanti, perche’ “il governo Prodi non sara’ ricordato per essere rimasto a galla” ma per aver fatto le riforme. Non solo le lenzuolate ma addirittura le “super-lenzuolate” dunque sono le benvenute, Rutelli non frena un bel niente, e’ Prodi che ha in mano “le chiavi”, e tocca a lui. Pensioni prima di tutto, perché è ovvio che qualcosa bisogna fare. Solo che “la componente massimalista” dava per scontato il contr ario, se e’ vero che con una certa sorpresa alcuni quotiidiani tradizionalmente dalla parte di Rc e della sinistra europea come Il Manifesto scrive che “il fronte si riapre” dopo Caserta, come se il vertice della Reggia avesse chiuso il capitolo. La componente massimalista ricorda quel che lo stesso Prodi disse tempo fa, “la riforma è stata già fatta”, semmai si tratta di aggiustare qualcosa. È sul “qualcosa” che però i nodi vengono al pettine: i famosi coefficienti di trasformazione, che poi vuol dire quanto sara’ la pensione in rapporto all’ultimo stipendio percepito, si dovrebbero aggiornare proprio rispettando la famosa riforma già fatta, la Dini, che prevedeva – come era ovvio – che l’età di vita si sarebbe allungata e che dunque avrebbe dovuto essere tagliato un po’ l’assegno mensile percepito dal pensionato dai 60 anni in poi.
Sul tema dunque “non c’e’ pace nell’Union”, come scrivono alcuni commentatori sull’Unita’: pressa l’Europa, pressa la Corte dei Conti, presserà anche il Fondo monetario internazionale. Il problema – come segnala Dario Di Vico sul Corriere della Sera – è che Rifondazione e i “massimalist” sono forti nella coalizione di maggioranza non tanto o non solo perché senza i loro voti il governo non va avanti, ma perché fanno riferimento a un corpo di convincimenti e di slogan che stanno dentro il lessico dei Ds, di una parte della stessa Margherita, dello stesso Romano Prodi. È una “relativa omogeneità di culture politiche” che porta a ritenere comunque auspicabile un maggior intervento pubblico in economia, a nutrire un certo scetticismo verso il ruolo dell’impresa privata, nella percezione che comunque nelle casse pubbliche ci sarebbero, eccome, le risorse per occuparsi dei poveri, dei pensionati, dei disoccupati, se solo i ricchi pagassero davvero le tasse.
Questo comune terreno politico-ideologico, scrive Di Vico, produce la “vittoria” di Rifondazione. Forse davvero per fare le riforme servirebbe un “metodo socialista”, come ha detto nemmeno scherzando troppo il professor Monti qualche settimana fa: un metodo stile soviet per imporre dall’alto le liberalizzazioni che dal basso non partono mai. Chissà, allora, se il Professore saprà mettere subito mano a nuove ricette, o se seguirà solo il solco del “cattocomunismo” del secolo passato.